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Insolvenza, crisi e gli indicatori della crisi

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6.2.2 Insolvenza, crisi e gli indicatori della crisi

In primo luogo, la riforma introduce nel nostro ordinamento la definizione di “crisi”, uno stato antecedente e concettualmente diverso rispetto all’insolvenza. Secondo il Codice, infatti:
• la crisi è “lo stato di difficoltà economico finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per l’impresa si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”;
• l’insolvenza è “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.

La crisi è quindi considerata una situazione di difficoltà che potrebbe essere “temporanea”, potenzialmente reversibile. Con la definizione adottata, la norma fa esplicito riferimento alla “probabilità di insolvenza”, introducendo quindi un concetto proprio della teoria del rischio di credito e – diversamente dall’insolvenza – non osservabile in modo oggettivo. La norma ha adottato un approccio coerente con un’evoluzione della crisi che richiede inizialmente interventi solo da parte di soggetti interni (amministratori e organi di controllo) e, mano a mano che la situazione si deteriora e la crisi si va trasformando in insolvenza, di soggetti esterni. Rispetto a un impianto normativo basato esclusivamente sul concetto di insolvenza, l’introduzione di quello di crisi sposta quindi la prospettiva per l’impresa, da una logica backward-looking (dati storici) a una logica forward-looking (dati prospettici).

Il nuovo Codice non si è limitato a una definizione generica della norma, ma ha anche messo a disposizione degli amministratori e degli organi di controllo strumenti che li aiutino a intercettare tempestivamente la crisi. La norma infatti individua, all’interno dell’articolo 13, gli “indicatori della crisi”, definendoli come “squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario (…) che diano evidenza della sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi e delle prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso”. Secondo il Codice, sono quindi indici significativi “quelli che misurano la sostenibilità degli oneri dell’indebitamento con i flussi di cassa che l’impresa è in grado di generare, e l’adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi. Costituiscono altresì indicatori di crisi ritardi nei pagamenti reiterati e significativi”. Il nuovo Codice affida poi al Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili (CNDCEC) il compito di elaborare con cadenza triennali indici puntuali, che fanno ragionevolmente presumere uno stato di crisi dell’azienda. Per la scelta degli indici, il CNDCEC ha adottato un approccio basato sui dati, collaborando con Cerved come partner scientifico.

Necessariamente, l’esercizio è stato condotto con una serie di vincoli:

• Impossibilità di individuare la crisi attraverso modelli di score o rating. Gli score disponibili sul mercato e ampiamente utilizzati nell’ambito del settore finanziario sono strumenti affidabili, ma sono patrimonio di società private e possono risultare una blackbox per commercialisti, revisori, sindaci e, più in generale, per tutto il sistema di giustizia civile. Viceversa, l’esercizio ha lo scopo di individuare indicatori chiari, semplici e facilmente utilizzabili da tutti gli operatori del sistema.

• La necessità di basarsi su dati certi, ufficiali e disponibili. Analisi statistiche affidabili richiedono di lavorare su campioni di imprese ampi e rappresentativi dell’intero sistema produttivo italiano. Gli unici dati disponibili che soddisfano questi requisiti sono le informazioni tratte dai bilanci.

• Mancanza di un indicatore oggettivo di ‘crisi’. Non esistendo un indicatore puntuale di crisi, è necessario fare riferimento alla capacità degli indicatori di prevedere l’insolvenza, per cui esistono dati certi. Molti esperti hanno evidenziato che la natura backward looking di indicatori tratti dai bilanci ne limita il potere predittivo, soprattutto rispetto alla possibilità di analizzare uno spettro di informazioni più ampio, generalmente nella disponibilità dell’impresa e con una maggiore valenza prospettica (come ad esempio le informazioni di tesoreria). Rispetto a queste valutazioni, l’orientamento del legislatore è stato quello di offrire comunque al sistema un ancoraggio a soglie certe, elaborate dagli esperti della materia. Nella scelta dei criteri per individuare il presunto stato di crisi, il CNDCEC ha affidato agli indici di bilancio un ruolo secondario, adottando un approccio sequenziale: in caso di patrimonio netto negativo o sotto gli obblighi di legge, si presume uno stato di crisi, se l’azienda non lo ripiana; se il patrimonio è positivo si guarda al DSCR (debt service coverage ratio), che si basa sull’adeguatezza dei flussi di cassa a soddisfare le esigenze finanziarie dell’azienda. Solo se questo indice è inferiore a 1 o se non è disponibile, si considerano cinque indici di bilancio. Inoltre, il legislatore ha previsto la possibilità di derogare agli indici definiti dal CNDCEC, indicando quelli idonei a far presumere la sussistenza dello stato di crisi, attraverso un’attestazione di un professionista. In altri termini, se un’impresa supera le soglie definite dal CNDCEC ma ritiene di non versare in uno stato di crisi, può utilizzare indicatori alternativi che dimostrino la non sussistenza dello stato di crisi. Questo approccio consente di superare il principale limite di un esercizio costruito sui bilanci, cioè il trade off che esiste tra errori statistici di primo e di secondo tipo. In altri termini, un approccio basato su soglie definite e tratte dai bilanci pone di fronte a un’alternativa:

• La scelta di fissare soglie ‘lasche’ comporta la segnalazione presso l’OCRI di un numero elevato di imprese: non solo quelle che versano in uno stato di incubazione della crisi, quindi i casi di emersione tempestiva che rientrano tra gli obiettivi delle norme, ma anche società che invece non si trovano in una situazione di vera difficoltà finanziaria (falsi positivi).

• La scelta di fissare soglie più stringenti comporta la segnalazione presso l’OCRI di un numero più ridotto di imprese: in questo caso il rischio è di segnalare all’OCRI società già ‘decotte’, con una bassa probabilità di garantire la continuità aziendale e di non segnalare imprese che versano in uno stato effettivo di crisi (falsi negativi); d’altra parte questo approccio riduce in modo considerevole il numero di ‘falsi positivi’.

Un sistema che produce un numero consistente di ‘falsi positivi’ potrebbe non essere gestibile e intasare il lavoro degli OCRI, soprattutto in una fase di rodaggio dei nuovi organismi. Inoltre è fortemente probabile che i crediti delle imprese segnalate presso gli OCRI possano essere classificati come unlikely to pay (UTP) dalle banche: la norma prevede un obbligo di riservatezza, ma nelle procedure di regolazione della crisi intervengono anche gli intermediari finanziari, che per ragioni prudenziali dovrebbero classificare tali crediti come UTP. Il rischio è di generare nei bilanci delle banche flussi consistenti di crediti deteriorati, con conseguenze negative in termini di redditività per gli istituti di credito e riflessi sul volume di finanziamenti all’economia reale, comprese le PMI. Utilizzando l’impianto del lavoro che Cerved ha svolto per il CNDCEC, è possibile avere alcune evidenze di questo trade-off applicandoli retroattivamente a un insieme rappresentativo di imprese italiane per il periodo 2010-2016. Il sistema di allerta automatico costruito sul superamento contestuale dei cinque indici prescelti è molto efficiente nel ridurre il numero di falsi positivi (solo lo 0,3% delle società che poi non sono andate in insolvenza, pari a 1.914 segnalazioni su 550 mila bilanci analizzati) ma questo limita anche il numero di casi di crisi intercettati: solo l’11% delle 18 mila procedure liquidatorie considerate. Se si abbassasse ad almeno quattro il numero di indicatori che porta alla segnalazione automatica, il numero di falsi positivi crescerebbe da 1.914 a 12.053 (al 2,2% del campione) e contestualmente crescerebbe in modo significativo la quota di insolvenze intercettate (il 28%); riducendo a tre i segnali, si arriverebbe all’ottimo risultato di intercettare poco meno della metà delle insolvenze, a costo però di un numero molto significativo di falsi positivi, pari a 50 mila (il 9% del campione). Viceversa, il superamento di una sola o di due soglie non costituisce alcun segnale utile, essendo il tasso di default di questo gruppo di imprese più basso rispetto a quello osservato sul totale della popolazione analizzata. Un’applicazione degli indici all’universo dei bilanci del 2017 produrrebbe poco meno di 5 mila segnalazioni (di cui 884 sulle società con almeno 10 addetti). I dati relativi ai debiti finanziari delle imprese segnalate che poi non sono entrate in insolvenza (falsi positivi) costituiscono una buona proxy del volume di UTP aggiuntivo che graverebbe sul sistema. Con l’approccio utilizzato (cinque indici), questo volume sarebbe pari a circa 1,5 miliardi di euro. Si stima che se si adottasse un approccio con almeno quattro indici, l’ammontare salirebbe a 13,3 miliardi di euro; con tre indici alla cifra astronomica di 149 miliardi di euro. Sono cifre che spiegano perché il CNDCEC abbia scelto un approccio prudente nella formulazione delle soglie. D’altra parte, i debiti finanziari rappresentano anche un indicatore utile per capire il volume di sofferenze che potrebbero essere evitate nel caso in cui le procedure di composizione della crisi abbiano successo nel garantire la continuità aziendale. Le sofferenze potenzialmente risolvibili sarebbero pari a 2,6 miliardi di euro con l’approccio più stringente (cinque indici); a 9,8 miliardi con il superamento di almeno quattro indici e 21,3 miliardi con il superamento di soli tre indici.

Estratto dal "Rapporto Cerved PMI 2019"

 

 


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